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Poma vi riconobbe da subito il medium più congeniale alla sua sensibilità e seppe
sfruttarne con sapienza le qualità espressive accentuando il carattere fuggevole di
scorci colti rapidamente e sottolineandone le linee di forza per ottenere un più
serrato effetto di sintesi. Ma ciò che probabilmente più lo affascinò fu la
resa particolarmente intensa dei valori luminosi e cromatici, che egli esaltava in un
gioco di contrasto tra colori saturi, come nel caso della "Veduta dello Chetif e del
Monte Bianco". E non stupisce che, per riuscire ad aderire alla sottigliezza della
sua visione, egli giungesse a fabbricarsi per conto proprio i colori macinando con
pazienza pigmenti naturali; per altro fu non meno esigente nei confronti della
qualità della carta che utilizzava, di importazione inglese come attestano i timbri
apposti su alcuni dei fogli. Una cura ed un'attenzione verso il proprio operare che
si spinge sino alla scelta sobria delle incorniciature in ottone, anch'esse apposte
dall'artista, e che spiega come opere così fragili siano potute giungere a noi
conservando integra la loro freschezza.
Il suo progressivo isolamento venne favorito anche dalla scelta di abbandonare
la capitale per trasferirsi, intorno agli anni Trenta, a Courmayeur: località amata
sin dagli anni della gioventù, dove decise di stabilirsi nella speranza di guarire
un figlio malato e dove risiederà per trent'anni.
L'esito drammatico di quella malattia lo spinse a concentrarsi ancor più sulla
pittura. A sostenerlo nel suo impegno fu un profondo amore per la montagna e la sua
natura, che costituisce il filo rosso sotteso agli oltre sessanta pastelli esposti
a Courmayeur; un sentimento mai banale nei tagli e nelle scelte dei soggetti reso
senza tradire quel linguaggio che ne improntò il gusto ad inizio secolo e che lo
rende un caso interessante nel quadro del paesaggismo piemontese di primo Novecento.
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