Poma guardò senza dubbio con interesse verso la nuova produzione di tempere e pastelli eseguiti da Sartorio nella campagna romana, mentre, in parallelo, si consumava il suo graduale distacco dal mondo artistico ufficiale; al 1909 risale infatti la sua ultima partecipazione ad un'esposizione (Roma, Società degli Amatori e Cultori). E' probabile che la scelta di abbandonare gli impegni pubblici abbia contribuito a rafforzarlo nell'adesione ad un linguaggio di radicale sintetismo, che trova consonanze in altri giovani di quell'ambito come Maurizio Barricelli e che sarà decisivo anche per i suoi esiti successivi.

Da quegli stimoli Poma trae spunto per un taglio fortemente ravvicinato dell'immagine, probabilmente influenzato dalla mediazione della fotografia; anche la scelta di ritornare sul medesimo soggetto per coglierne il variare nei diversi momenti di luce e atmosfera appare influenzata dalle scelte di Sartorio. Ma è soprattutto il prevalente uso del pastello ad apparire emblematico. (...) Nel 1890 il pastello diveniva a tutti gli effetti un'arte "maggiore", testimone, con la sua incessante evoluzione, dei benefici introdotti dalle scienze positive anche nel campo dell'arte.

(...) Poma riconobbe da subito nel pastello il medium più congeniale alla sua sensibilità e seppe sfruttarne con sapienza le qualità espressive accentuando il carattere fuggevole di scorci colti rapidamente e sottolineandone le linee di forza per ottenere un più serrato effetto di sintesi. Ma ciò che probabilmente più lo affascinò fu la resa particolarmente intensa dei valori luminosi e cromatici, che egli esaltava in un gioco di contrasto tra colori saturi, come nel caso della Veduta dello Chetif e del Monte Bianco.

(...) Egli giunse a fabbricarsi per conto proprio i colori macinando con pazienza pigmenti naturali; per altro fu non meno esigente nei confronti della qualità della carta che utilizzava, di importazione inglese come attestano i timbri apposti su alcuni dei fogli. Una cura ed un'attenzione verso il proprio operare che si spinge sino alla scelta sobria delle incorniciature in ottone, anch'esse apposte dall'artista, e che spiega come opere così fragili siano potute giungere a noi conservando integra la loro freschezza.

Il suo progressivo isolamento venne favorito anche dalla scelta di abbandonare la capitale per trasferirsi, intorno agli anni Trenta, a Courmayeur: località amata sin dagli anni della gioventù, dove decise di stabilirsi nella speranza di guarire un figlio malato e dove risiederà per trent'anni.

(...) il profondo amore per la montagna e la sua natura, costituisce il filo rosso sotteso agli oltre sessanta pastelli esposti a Courmayeur; un sentimento mai banale nei tagli e nelle scelte dei soggetti reso senza tradire quel linguaggio che ne improntò il gusto ad inizio secolo e che lo rende un caso interessante nel quadro del paesaggismo piemontese di primo Novecento.

 
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